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La storia Villa Milani Ghellini - Tonin

Novoledo (VI)

L’ architettura

La villa fu fatta costruire nel 1575 da Giovanni Milani e Francesco e figli, come riportato nell’iscrizione in centro dell'attico in luogo alla finestra mediana: IOANNES MILANUS E.Q.S. FRANCISCI. F. EREXIT A FUNDAMENTIS D.O.M AUSP ANNO M.D. LXXV. Giovanni Milani era capitano della Serenissima e la famiglia era conosciuta nella zona per la vendita e l’ acquisto di fondi agricoli. Nel 1620 la proprietà venne venduta a Emilio Ghellini. In uno scritto ritrovato dagli attuali proprietari si può leggere quanto segue. Ampie erano le possessioni e numerose le case in proprietà dei Ghellini oltre che in zone più lontane anche a Villaverla, Caldogno e Novoledo: in tutte e tre queste località essi hanno lasciato splendide dimore acquistate, costruite o ampliate a loro spese e in varie epoche, a testimoniare le grandi disponibilità economiche del loro casato. Il prospetto della villa rivolto a mezzogiorno è costituito da un ampio porticato sorretto da eleganti colonne con capitello ionico. Al di sopra di esse corre un altrettanto elegante architrave con cornicione a dentelli di vivo effetto chiaroscurale, che movimenta e arricchisce la trabeazione. Al di sopra di questa risalta un attico in tenue bugnato, interrotto da lesene in corrispondenza delle colonne e, negli intercolumni, da piccole finestre quadrate. Due sottili piramidi sul tetto ai lati dell’ edificio, fuori dall’ asse delle colonne e fino al 1947 sormontate da una sfera di pietra, cercano di equilibrare quell’ andamento orizzontale, che però risulta troppo insistentemente ribadito da vari elementi architettonici. Sul porticato si affacciano le finestre di tre ampie sale, la grande porta di quella mediana, e due porte più piccole ai lati, i cui vani, oltre ad immettere nelle due sale laterali, ospitano pure due eleganti scale a chiocciola, articolate in rampe e pianerottoli, che portano alle stanze superiori e all’ attico, che era adibito esclusivamente ad unico ed ampio granaio. Dal vano scale si scendeva in sotterranei da cui partivano delle gallerie con volti in mattoni, ora in parte diroccate, che non si sa dove andassero a sboccare. Al nord stava un orto recintato, il cui muro perimetrale ovest continuava in direzione nord ancora per qualche centinaio di metri, mentre davanti alla villa si estendeva un ampio cortile al quale si affacciavano gli ambienti rustici. Attraverso questa corte spaziosa si aveva l’ ingresso principale, che sulla strada si affacciava con due pilastri in mattoni sovrastati da due anfore in pietra, e fiancheggiati da due tratti di muro che terminavano con merlature ghibelline. Ora tutto questo spazio antistante, come afferma il Cevese: “fu recentemente degradato per la costruzione disordinata e inopportuna di nuovi disdicevoli edifici”. Le pitture interne della Villa sono stare recuperate e restaurare dagli attuali proprietari. Nei tre saloni ci sono dei disegni di forma geometrica e floreale. Nei sopra-porta sono stati recuperati le originali pitture architettoniche del periodo neo-classico. Nel salone del rustico dove vive attualmente il proprietario, esistono delle pitture rappresentate da grandi specchiature intervallate da delle lesene, con all'interno rappresentata la Rosa Canina con tralci e fiori. Nei sopra-porta sono raffigurare delle pitture che esaltano il gioco, il vino e l'uccellagione. Di grande importanza è un dipinto dove viene riportata un 'immagine con i vari sistemi utilizzati nella pratica dell'uccellagione e cattura degli uccelli. Questo testimonia che i proprietari, famiglia Ghellini, avevano la passione della caccia, da cui si deduce che possedevano un rocolo dove si esercitava l'uccellagione, come momento di svago. Al centro dell’ attico, in luogo alla finestra mediana, sta un’ iscrizione che dice: PAULUS EMILIUS GHELLINUS NOBILIS VICENTINUS JURE CONSULTUS SAPIENTIA PIETATE INTEGRITATE CELEBERRIMUS AEDEM HANC SIBI POSTERISQUE SUIS ACQUISIVIT ALOYSIUS JURE UTROQUE DOCTOR NEPOS IN CATHEDRALI ARCHIPRESBYTER ET MARCUS ANTONIUS PRONEPOS AMPLIARUNT DECORARUNT Dalla dicitura “ACQUISIVIT” si deduce che la villa fu acquistata da Paolo Emilio Ghellini. Dal suo testamento nel 1639 più che settantenne, si induce a pensare che si sia procurato il palazzo in età matura, quando fatte le divisioni con il fratello Bartolomeo, cui toccò la casa in Via Scartezzini, egli si trovò senza dimora nel 1598. In seguito, nel secolo successivo, dai documenti notarili risulta che Paolo Emilio Ghellini acquistò la Villa dai magnifici Signori FRANCESCO e ZUANE ANTONIO e NICOLO' nel 1620, fratelli e figli del CAV. FRANCESCO MILANI. Nel 1673 Marco Antonio Ghellini aggiunse ai lati della villa altri due gruppi di stanze, come viene ricordato da una breve descrizione posta a sera: MARCUS ANTONIUS GHELLINUS QUONDAM HIERONYMI HAS A FUNDAMENTIS IUNXIT ANNO DOMINI MDCLXXIII All’ angolo sud-ovest dell’ originario cortile si attesta la chiesetta gentilizia della famiglia. Essa, per incarico del vescovo di Vicenza, fu benedetta il 16 novembre 1671 dal reverendo Luigi Ghellini secondo la formula del rituale romano, ed era dedicata a S. Antonio di Padova. L’ erezione era stata voluta da Marco Antonio Ghellini, il quale aveva fatto precedentemente demolire la vecchia cappellina vicina allo stesso palazzo, allo scopo specifico di erigerne una nuova. Evidentemente lo stesso proprietario si è reso conto che la chiesa era da rifare e allora il 9 aprile 1671 chiede al vescovo di abbattere la vecchia, recuperare il materiale da costruzione e riutilizzarlo anche per usi profani, e fare la nuova un po’ discostata dal palazzo, e aperta al pubblico. Il permesso deve essere avvenuto subito, e il 20 agosto dello stesso anno era già al coperto, tanto che il canonico Alvise Ghellini vi fa un sopralluogo per avvalorare la richiesta di Marco Antonio di aprire una porta privata per l’ accesso alla chiesetta anche dai portici retrostanti, in modo che le signore non fossero costrette a prendere la pioggia in caso di cattivo tempo probabilmente questa seconda autorizzazione non è mai giunta, tanto che la porta privata non venne mai aperta. Comunque la chiesetta poté essere benedetta nel novembre dello stesso 1671. La dedica di questo altare ha fatto che la chiesa per voce comune fosse detta di S. Gaetano, rimanendo invece sempre ed ufficialmente dedicata a S. Antonio. Il prospetto della chiesetta, che si affaccia sulla strada, sembra presentare una certa prevalenza delle aperture sulla parete chiusa. Due finestre rettangolari forse di eccessive dimensioni fiancheggiano la porta d’ ingresso, sovrastata questa da un piccolo frontoncino triangolare, al di sopra del quale, al centro, spicca un’ ampia finestra rotonda. La parete viene conclusa da un timpano triangolare al cui centro spicca lo stemma nobiliare dei Ghellini, e con negli acroteri tre statue di modesta fattura seicentesca: al vertice la Vergine, a sinistra S. Antonio e a destra S. Gaetano. Fra l’ altare laterale sinistro e l’ angusta sacristia s’ innalza un piccolo campanile, che un tempo accoglieva due campane, sovrastato da una piccola statua di un angelo. Questa chiesetta venne visitata il 20 settembre 1824 dal vescovo Giovanni Antonio Peruzzi, che la trova nel suo complesso in ordine. La chiesa era allora di proprietà della contessa Bernardina Ghellini-Nievo.

La Famiglia Ghellini

Le origini della famiglia Ghellini si possono ritrovare all’ interno della chiesetta, infatti sempre nei documenti ritrovati dagli attuali proprietari della villa si riporta che l’ altar maggiore è: “sovrastato anch’esso da tre piccole statue: al centro un piccolo putto e ai lati due figure in armatura da guerrieri. I due guerrieri vorrebbero raffigurare S. Agricola e il suo servo S. Vitale. Secondo una tradizione, però non confermata, essi sarebbero appartenuti all’ antichissima famiglia bolognese degli Scannabecchi, dalla quale trasse origine nel 1300 la famiglia dei Ghellini”. I Ghellini erano sicuramente una delle famiglie più importanti dell’ epoca. Un’ iscrizione in latino citata già in precedenza e tradotta, riporta quanto segue: “Paolo Emilio Ghellini, nobile vicentino, giureconsulto, celeberrimo per sapienza, pietà ad integrità, questo edificio procurò per se e i suoi posteri. Il nipote Luigi, dottore in entrambi i diritti, arciprete nella cattedrale, e il nipote Marco Antonio, ampliarono e decorarono”. Questo ci riporta a tre personaggi molto importanti per la storia della villa, primo fra tutti Paolo Emilio Ghellini, che acquistò la villa, Luigi Ghellini, che era reverendo e il 16 novembre del 1671 benedì la chiesetta fatta costruire da Marco Antonio Ghellini. Quest’ ultimo inoltre ampliò la villa facendo aggiungere delle stanze. Citiamo anche il canonico Alvise Ghellini, chiamato da Marco Antonio Ghellini per fare un sopralluogo per poter “aprire una porta privata per l’ accesso alla chiesetta anche dai portici retrostanti, in modo che le signore non fossero costrette a prendere la pioggia in caso di cattivo tempo”. Un’ altro personaggio importante per la famiglia fu Gellio Ghellini, nei documenti si legge: ”Si sa che Gellio Ghellini, prozio di Marco Antonio, era molto noto alla sua epoca per intelligenza, pietà e carità. Aveva, infatti, fondato a Vicenza a spese sue il pio luogo del “Soccorso” come asilo di penitenza e di recupero per le donne traviate. Aveva conseguito la laurea in diritto all’ Università di Padova e di Sacra Teologia all’ Università di Ferrara. Fu anche canonico della cattedrale di Vicenza, ma dopo qualche tempo rinunziò al grado, come pure rinunziò al vescovado di Parenzo, in Istria, offertogli dal pontefice di allora Clemente VIII. Aiutò il Calasanzio nella fondazione delle Scuole Pie. Quando morì era parroco di S. Faustino e vi fu sepolto il 29 agosto del 1616. Di lui fu introdotta la causa di beatificazione, poi sospesa non si sa per quali motivi”. Gellio Ghellini è ricordato anche in un’ iscrizione latina posta sotto al suo busto stilizzato all’ interno della chiesetta che tradotta dice: “O pio viandante, alza lo sguardo all’ immagine del sacerdote Gellio Ghellini, ammira la pietà e la fede di lui, del quale forse con pubblici voti richiedi il patrocinio”. UNA NOTA DI STORIA VICENTINA Le proprietà delle famiglie Ghellini con le loro ville in Novoledo, hanno fatto si che il territorio fosse identificato come una ”terra promessa”, perché la grande quantità di acqua fornita dalle risorgive del luogo, permetteva una maggiore fertilità alle terre coltivate e assicurava prosperità ai loro proprietari. Le risorgive formano le sorgenti che con l'unione delle acque del TIMONCHIO danno origine al fiume BACCHIGLIONE, il cui nome tradotto dal greco significa “FIGLIO DI BACCO”. Da questo si deduce che nell'antichità l'origine del nome derivasse dalla coltivazione delle viti nel territorio, che producendo ottimi grappoli davano vita ad un ottimo vino, facendo in modo che la gente locale dedicasse il nome Bacchiglione al nascente corso d'acqua. Il Bacchiglione ha dato i natali a tanti artisti che hanno successivamente magnificato la città di Vicenza. Nella proprietà di Gelindo Ghellini il vicentino Prelato Valeriano Canati, più noto con l' anagramma di Aureliano Acanti, era amico di famiglia e veniva invitato per la caccia nel roccolo e alle feste, dove partecipavano molti nobili proprietari di fondi agricoli della provincia di Vicenza, che per l'occasione portavano i vini prodotti nelle proprie tenute per deliziare gli ospiti. Da questo connubio di festeggiamenti con i vini locali il prelato, esaltandone le doti, i sapori e i profumi, darà voce a delle pagine poetiche che gratificheranno, con la loro lettura, i commensali alle feste. Dalla raccolta di queste pagine poetiche Valeriano Canati, in tarda età, darà origine al poemetto “IL ROCCOLO DITIRAMBO”, scritto in onore di Gellio Ghellini in occasione del matrimonio della figlia Elena con il Conte Simondo Chiericati. Il poemetto viene pubblicato un'unica volta a Venezia nel 1754 a cura della Stamperia Pezzana e sarà apprezzato non solo dai letterati per la sua valenza poetica, ma anche dagli enologi per l'importante apporto fornito allo studio della vinicoltura, che nel secolo successivo avrebbe avuto notevole sviluppo a livello italiano ed europeo. Con i suoi 1700 versi è un inno agli oltre trenta vini prodotti nel vicentino, dei quali vengono descritti ed esaltati non solo i sapori, ma anche le suggestive zone di produzione prevalentemente collinari. In questo poema viene menzionato per la prima volta il prosecco del Ghellino, che veniva coltivato dal canonico Jacobo Ghellini e dai suoi due fratelli Pietro e Marco nei terreni che possedevano a Monte Berico. Una nota folcloristica che emerge dal poemetto riguarda i produttori di vino vicentini, i quali prendevano in giro le produzioni che i padovani facevano nei colli euganei, in quanto davano alla luce un vino di bassa gradazione alcolica e acerbo al gusto chiamato dai nobili vicentini “vino pisciarello”. Il benemerito fautore di questo roccolo dalle dimensioni di un grande giardino è Bacco, che nel suo peregrinare, dopo aver fatto rifiorire Firenze e la Toscana come aveva raccontato Francesco Redi nel suo “Bacco in Toscana”, trova definitivo e gratificante riposo nel territorio vicentino appagato dall'amore della ninfea Caledonia (da cui il toponimo di Caldogno) e dalla bellezza del paesaggio.
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La storia Villa Milani

Ghellini - Tonin

Novoledo (VI)

L’ architettura

La villa fu fatta costruire nel 1575 da Giovanni Milani e Francesco e figli, come riportato nell’iscrizione in centro dell'attico in luogo alla finestra mediana: IOANNES MILANUS E.Q.S. FRANCISCI. F. EREXIT A FUNDAMENTIS D.O.M AUSP ANNO M.D. LXXV. Giovanni Milani era capitano della Serenissima e la famiglia era conosciuta nella zona per la vendita e l’ acquisto di fondi agricoli. Nel 1620 la proprietà venne venduta a Emilio Ghellini. In uno scritto ritrovato dagli attuali proprietari si può leggere quanto segue. Ampie erano le possessioni e numerose le case in proprietà dei Ghellini oltre che in zone più lontane anche a Villaverla, Caldogno e Novoledo: in tutte e tre queste località essi hanno lasciato splendide dimore acquistate, costruite o ampliate a loro spese e in varie epoche, a testimoniare le grandi disponibilità economiche del loro casato. Il prospetto della villa rivolto a mezzogiorno è costituito da un ampio porticato sorretto da eleganti colonne con capitello ionico. Al di sopra di esse corre un altrettanto elegante architrave con cornicione a dentelli di vivo effetto chiaroscurale, che movimenta e arricchisce la trabeazione. Al di sopra di questa risalta un attico in tenue bugnato, interrotto da lesene in corrispondenza delle colonne e, negli intercolumni, da piccole finestre quadrate. Due sottili piramidi sul tetto ai lati dell’ edificio, fuori dall’ asse delle colonne e fino al 1947 sormontate da una sfera di pietra, cercano di equilibrare quell’ andamento orizzontale, che però risulta troppo insistentemente ribadito da vari elementi architettonici. Sul porticato si affacciano le finestre di tre ampie sale, la grande porta di quella mediana, e due porte più piccole ai lati, i cui vani, oltre ad immettere nelle due sale laterali, ospitano pure due eleganti scale a chiocciola, articolate in rampe e pianerottoli, che portano alle stanze superiori e all’ attico, che era adibito esclusivamente ad unico ed ampio granaio. Dal vano scale si scendeva in sotterranei da cui partivano delle gallerie con volti in mattoni, ora in parte diroccate, che non si sa dove andassero a sboccare. Al nord stava un orto recintato, il cui muro perimetrale ovest continuava in direzione nord ancora per qualche centinaio di metri, mentre davanti alla villa si estendeva un ampio cortile al quale si affacciavano gli ambienti rustici. Attraverso questa corte spaziosa si aveva l’ ingresso principale, che sulla strada si affacciava con due pilastri in mattoni sovrastati da due anfore in pietra, e fiancheggiati da due tratti di muro che terminavano con merlature ghibelline. Ora tutto questo spazio antistante, come afferma il Cevese: “fu recentemente degradato per la costruzione disordinata e inopportuna di nuovi disdicevoli edifici”. Le pitture interne della Villa sono stare recuperate e restaurare dagli attuali proprietari. Nei tre saloni ci sono dei disegni di forma geometrica e floreale. Nei sopra-porta sono stati recuperati le originali pitture architettoniche del periodo neo- classico. Nel salone del rustico dove vive attualmente il proprietario, esistono delle pitture rappresentate da grandi specchiature intervallate da delle lesene, con all'interno rappresentata la Rosa Canina con tralci e fiori. Nei sopra-porta sono raffigurare delle pitture che esaltano il gioco, il vino e l'uccellagione. Di grande importanza è un dipinto dove viene riportata un 'immagine con i vari sistemi utilizzati nella pratica dell'uccellagione e cattura degli uccelli. Questo testimonia che i proprietari, famiglia Ghellini, avevano la passione della caccia, da cui si deduce che possedevano un rocolo dove si esercitava l'uccellagione, come momento di svago. Al centro dell’ attico, in luogo alla finestra mediana, sta un’ iscrizione che dice: PAULUS EMILIUS GHELLINUS NOBILIS VICENTINUS JURE CONSULTUS SAPIENTIA PIETATE INTEGRITATE CELEBERRIMUS AEDEM HANC SIBI POSTERISQUE SUIS ACQUISIVIT ALOYSIUS JURE UTROQUE DOCTOR NEPOS IN CATHEDRALI ARCHIPRESBYTER ET MARCUS ANTONIUS PRONEPOS AMPLIARUNT DECORARUNT Dalla dicitura “ACQUISIVIT” si deduce che la villa fu acquistata da Paolo Emilio Ghellini. Dal suo testamento nel 1639 più che settantenne, si induce a pensare che si sia procurato il palazzo in età matura, quando fatte le divisioni con il fratello Bartolomeo, cui toccò la casa in Via Scartezzini, egli si trovò senza dimora nel 1598. In seguito, nel secolo successivo, dai documenti notarili risulta che Paolo Emilio Ghellini acquistò la Villa dai magnifici Signori FRANCESCO e ZUANE ANTONIO e NICOLO' nel 1620, fratelli e figli del CAV. FRANCESCO MILANI. Nel 1673 Marco Antonio Ghellini aggiunse ai lati della villa altri due gruppi di stanze, come viene ricordato da una breve descrizione posta a sera: MARCUS ANTONIUS GHELLINUS QUONDAM HIERONYMI HAS A FUNDAMENTIS IUNXIT ANNO DOMINI MDCLXXIII All’ angolo sud-ovest dell’ originario cortile si attesta la chiesetta gentilizia della famiglia. Essa, per incarico del vescovo di Vicenza, fu benedetta il 16 novembre 1671 dal reverendo Luigi Ghellini secondo la formula del rituale romano, ed era dedicata a S. Antonio di Padova. L’ erezione era stata voluta da Marco Antonio Ghellini, il quale aveva fatto precedentemente demolire la vecchia cappellina vicina allo stesso palazzo, allo scopo specifico di erigerne una nuova. Evidentemente lo stesso proprietario si è reso conto che la chiesa era da rifare e allora il 9 aprile 1671 chiede al vescovo di abbattere la vecchia, recuperare il materiale da costruzione e riutilizzarlo anche per usi profani, e fare la nuova un po’ discostata dal palazzo, e aperta al pubblico. Il permesso deve essere avvenuto subito, e il 20 agosto dello stesso anno era già al coperto, tanto che il canonico Alvise Ghellini vi fa un sopralluogo per avvalorare la richiesta di Marco Antonio di aprire una porta privata per l’ accesso alla chiesetta anche dai portici retrostanti, in modo che le signore non fossero costrette a prendere la pioggia in caso di cattivo tempo probabilmente questa seconda autorizzazione non è mai giunta, tanto che la porta privata non venne mai aperta. Comunque la chiesetta poté essere benedetta nel novembre dello stesso 1671. La dedica di questo altare ha fatto che la chiesa per voce comune fosse detta di S. Gaetano, rimanendo invece sempre ed ufficialmente dedicata a S. Antonio. Il prospetto della chiesetta, che si affaccia sulla strada, sembra presentare una certa prevalenza delle aperture sulla parete chiusa. Due finestre rettangolari forse di eccessive dimensioni fiancheggiano la porta d’ ingresso, sovrastata questa da un piccolo frontoncino triangolare, al di sopra del quale, al centro, spicca un’ ampia finestra rotonda. La parete viene conclusa da un timpano triangolare al cui centro spicca lo stemma nobiliare dei Ghellini, e con negli acroteri tre statue di modesta fattura seicentesca: al vertice la Vergine, a sinistra S. Antonio e a destra S. Gaetano. Fra l’ altare laterale sinistro e l’ angusta sacristia s’ innalza un piccolo campanile, che un tempo accoglieva due campane, sovrastato da una piccola statua di un angelo. Questa chiesetta venne visitata il 20 settembre 1824 dal vescovo Giovanni Antonio Peruzzi, che la trova nel suo complesso in ordine. La chiesa era allora di proprietà della contessa Bernardina Ghellini-Nievo.

La Famiglia Ghellini

Le origini della famiglia Ghellini si possono ritrovare all’ interno della chiesetta, infatti sempre nei documenti ritrovati dagli attuali proprietari della villa si riporta che l’ altar maggiore è: “sovrastato anch’esso da tre piccole statue: al centro un piccolo putto e ai lati due figure in armatura da guerrieri. I due guerrieri vorrebbero raffigurare S. Agricola e il suo servo S. Vitale. Secondo una tradizione, però non confermata, essi sarebbero appartenuti all’ antichissima famiglia bolognese degli Scannabecchi, dalla quale trasse origine nel 1300 la famiglia dei Ghellini”. I Ghellini erano sicuramente una delle famiglie più importanti dell’ epoca. Un’ iscrizione in latino citata già in precedenza e tradotta, riporta quanto segue: “Paolo Emilio Ghellini, nobile vicentino, giureconsulto, celeberrimo per sapienza, pietà ad integrità, questo edificio procurò per se e i suoi posteri. Il nipote Luigi, dottore in entrambi i diritti, arciprete nella cattedrale, e il nipote Marco Antonio, ampliarono e decorarono”. Questo ci riporta a tre personaggi molto importanti per la storia della villa, primo fra tutti Paolo Emilio Ghellini, che acquistò la villa, Luigi Ghellini, che era reverendo e il 16 novembre del 1671 benedì la chiesetta fatta costruire da Marco Antonio Ghellini. Quest’ ultimo inoltre ampliò la villa facendo aggiungere delle stanze. Citiamo anche il canonico Alvise Ghellini, chiamato da Marco Antonio Ghellini per fare un sopralluogo per poter “aprire una porta privata per l’ accesso alla chiesetta anche dai portici retrostanti, in modo che le signore non fossero costrette a prendere la pioggia in caso di cattivo tempo”. Un’ altro personaggio importante per la famiglia fu Gellio Ghellini, nei documenti si legge: ”Si sa che Gellio Ghellini, prozio di Marco Antonio, era molto noto alla sua epoca per intelligenza, pietà e carità. Aveva, infatti, fondato a Vicenza a spese sue il pio luogo del “Soccorso” come asilo di penitenza e di recupero per le donne traviate. Aveva conseguito la laurea in diritto all’ Università di Padova e di Sacra Teologia all’ Università di Ferrara. Fu anche canonico della cattedrale di Vicenza, ma dopo qualche tempo rinunziò al grado, come pure rinunziò al vescovado di Parenzo, in Istria, offertogli dal pontefice di allora Clemente VIII. Aiutò il Calasanzio nella fondazione delle Scuole Pie. Quando morì era parroco di S. Faustino e vi fu sepolto il 29 agosto del 1616. Di lui fu introdotta la causa di beatificazione, poi sospesa non si sa per quali motivi”. Gellio Ghellini è ricordato anche in un’ iscrizione latina posta sotto al suo busto stilizzato all’ interno della chiesetta che tradotta dice: “O pio viandante, alza lo sguardo all’ immagine del sacerdote Gellio Ghellini, ammira la pietà e la fede di lui, del quale forse con pubblici voti richiedi il patrocinio”. UNA NOTA DI STORIA VICENTINA Le proprietà delle famiglie Ghellini con le loro ville in Novoledo, hanno fatto si che il territorio fosse identificato come una ”terra promessa”, perché la grande quantità di acqua fornita dalle risorgive del luogo, permetteva una maggiore fertilità alle terre coltivate e assicurava prosperità ai loro proprietari. Le risorgive formano le sorgenti che con l'unione delle acque del TIMONCHIO danno origine al fiume BACCHIGLIONE, il cui nome tradotto dal greco significa “FIGLIO DI BACCO”. Da questo si deduce che nell'antichità l'origine del nome derivasse dalla coltivazione delle viti nel territorio, che producendo ottimi grappoli davano vita ad un ottimo vino, facendo in modo che la gente locale dedicasse il nome Bacchiglione al nascente corso d'acqua. Il Bacchiglione ha dato i natali a tanti artisti che hanno successivamente magnificato la città di Vicenza. Nella proprietà di Gelindo Ghellini il vicentino Prelato Valeriano Canati, più noto con l' anagramma di Aureliano Acanti, era amico di famiglia e veniva invitato per la caccia nel roccolo e alle feste, dove partecipavano molti nobili proprietari di fondi agricoli della provincia di Vicenza, che per l'occasione portavano i vini prodotti nelle proprie tenute per deliziare gli ospiti. Da questo connubio di festeggiamenti con i vini locali il prelato, esaltandone le doti, i sapori e i profumi, darà voce a delle pagine poetiche che gratificheranno, con la loro lettura, i commensali alle feste. Dalla raccolta di queste pagine poetiche Valeriano Canati, in tarda età, darà origine al poemetto “IL ROCCOLO DITIRAMBO”, scritto in onore di Gellio Ghellini in occasione del matrimonio della figlia Elena con il Conte Simondo Chiericati. Il poemetto viene pubblicato un'unica volta a Venezia nel 1754 a cura della Stamperia Pezzana e sarà apprezzato non solo dai letterati per la sua valenza poetica, ma anche dagli enologi per l'importante apporto fornito allo studio della vinicoltura, che nel secolo successivo avrebbe avuto notevole sviluppo a livello italiano ed europeo. Con i suoi 1700 versi è un inno agli oltre trenta vini prodotti nel vicentino, dei quali vengono descritti ed esaltati non solo i sapori, ma anche le suggestive zone di produzione prevalentemente collinari. In questo poema viene menzionato per la prima volta il prosecco del Ghellino, che veniva coltivato dal canonico Jacobo Ghellini e dai suoi due fratelli Pietro e Marco nei terreni che possedevano a Monte Berico. Una nota folcloristica che emerge dal poemetto riguarda i produttori di vino vicentini, i quali prendevano in giro le produzioni che i padovani facevano nei colli euganei, in quanto davano alla luce un vino di bassa gradazione alcolica e acerbo al gusto chiamato dai nobili vicentini “vino pisciarello”. Il benemerito fautore di questo roccolo dalle dimensioni di un grande giardino è Bacco, che nel suo peregrinare, dopo aver fatto rifiorire Firenze e la Toscana come aveva raccontato Francesco Redi nel suo “Bacco in Toscana”, trova definitivo e gratificante riposo nel territorio vicentino appagato dall'amore della ninfea Caledonia (da cui il toponimo di Caldogno) e dalla bellezza del paesaggio.
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